Rileggere la propria vita alla luce delle beatitudini.

Il percorso psicologico proposto ad adolescenti e giovani adulti alla #sfafnazionale2015

PAESTUM, 24 AGOSTO

Claudia Maiochetti e Maurizio Maltese, psicologi e psicoterapeuti, per il terzo anno consecutivo promuovono alla SFAF un percorso psicologico per ragazzi. Quest’anno, in conformità con la catechesi degli adulti, la formazione ha avuto come tema le beatitudini. Ogni giorno dalle 9:30 alle 11:00 i ragazzi, divisi in due gruppi in base all’età (dai 16 ai 18 con Claudia, dai 19 in su con Maurizio) affrontavano la beatitudine relativa alla giornata. Stessa metodologia, stessi obiettivi: giochi, esercizi, letture, lavori in piccolo gruppo, per riflettere a partire dalle proprie esperienze e dalle relazioni tra pari su cosa significa concretamente calare le beatitudini nella propria vita!

I ragazzi come hanno reagito al tema delle beatitudini?

C: L’obiettivo che c’eravamo prefissati, nel preparare gli incontri, era quello di rendere le beatitudini qualcosa di comprensibile e realizzabile umanamente in comportamenti, atteggiamenti e modalità relazionali nuove. Avevamo il timore di proporgli qualcosa che fosse troppo distante rispetto alle abilità relazionali su cui avevamo lavorato negli anni precedenti, ma alla fine del campo il timore è fugato completamente.

M: Lo sforzo è stato lavorare sulle beatitudini come un percorso che concretamente i ragazzi possono fare per il raggiungimento della propria felicità. Abbiamo cercato di non passare il messaggio di Gesù come un “dovete comportarvi così” ma piuttosto “che cosa ci sta dicendo Gesù attraverso le beatitudini?”. Andando a parlare della loro esperienza quotidiana, hanno scoperto che cosa vuol dire concretamente essere beati; hanno scoperto attraverso un lavoro su di sé e sulle loro relazioni che quello che ci dice Gesù oggi, nella nostra vita, è un’occasione di pace interiore, di pace con l’altro, di andare all’essenziale della cose, ai veri valori, di lottare per la giustizia all’interno della propria società, della propria famiglia o scuola.

Qual è stata la beatitudine che ha suscitato maggiore interesse e riflessione?

C: La più difficile da capire, quella che li ha smossi e interrogati un po’ di più è stata la prima: “Beati i poveri di spirito”. Paradossalmente le altre sono più comprensibili.

M: Anche nel mio gruppo ho notato la stessa difficoltà.

Ogni mattina, prima di iniziare l’attività, a giro i ragazzi dovevano rispondere ad una domanda: “Come sto?” perché?

C: Per riconnettersi con se stessi si può anche cominciare con un piccolo gioco in cui si invitano i ragazzi a fare silenzio, sintonizzarsi con il proprio respiro, con il proprio sentire e a dare nome al come si sta. È un tornare in sé che ritroviamo anche nel Vangelo: il Figliol prodigo quando decide di tornare dal padre, “rientra in se stesso”(Lc 15,17 ndr). Conoscendo se stessi, si possono padroneggiare le relazioni con gli altri, altrimenti viviamo sconnessi.

M: La via che proponiamo è quella di una profonda consapevolezza di sè che non è soltanto mindfulness o filosofia orientale. Anche Gesù ne parla; quando dice “Perchè guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e  non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?”(Lc 6,41). Quindi chiedersi “come sto?” “Cosa sento stamattina?” e accettare pienamente come si sta qualsiasi cosa si senta in fondo è un invito della parola di Gesù detto in un linguaggio diverso.

I ragazzi riescono a riconoscere le proprie emozioni?

C: I ragazzi non sono abituati a dare nome alle proprie emozioni e a capire cosa gli succede interiorimente. Però c’è molta apertura e curiosità su questo e penso sia una bella proposta unire nello stesso laboratorio due ambiti, la consapevolezza e il contatto spirituale, perché è un’occasione per i ragazzi di conoscersi meglio ed essere in relazioni più sane e consapevoli. Il gruppo è stato anche un grande contenitore delle lacrime e poi alla fine c’è stato un grazie da parte di molti rispetto alla capacità di ascoltarsi, di non giudicarsi  e di potersi mostrare anche con timore ma senza sentirsi feriti.

M: Le difficoltà che possono esserci nell’entrare in contatto con sé nella fascia degli universitari è più personale, come per gli adulti. Se ho paura di sentire la mia emozione posso far fatica a contattarla.

Come vi siete sentiti nel lavorare con i ragazzi?

C: L’esperienza è iniziata con molto timore perché mentre ci sentiamo molto tranquilli a lavorare con gli adulti, con i ragazzi c’è sempre paura di non piacergli o di annoiarli. È stata una sfida riuscire a proporre cose impegnative come queste ed è stato un grande dono vedere la loro disponibilità nel cogliere l’occasione per aprirsi e per far vedere un pezzo della loro intimità e del loro cuore anche a noi.

M: io mi sento privilegiato. Posso cogliere nei giovani quella bellezza – nella spontaneità e nella fragilità, nella voglia di conoscersi e di conoscere l’altro – che i genitori, presi dalle cose che non vanno nei figli, rischiano di vedere di meno.

L’invito, quindi, che faccio ai genitori è di concentrarsi di più sulle bellezze dei loro figli e non solo sulle fragilità che li spaventano.

 Autore:Diana Notari